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Technopolis: Il Dragone Hi-Tech sfida la Silicon Valley




L’interesse mediaticoe social per le aziende cinesi in Occidente è in costante crescita: è l’inizio della fine del predominio statunitense?


La competizione commerciale fra Stati Uniti e Cina ha subìto di recente un’accelerazione importante, a causa di veti e dazi incrociati istituiti dai due colossi allo scopo di difendere le proprie industrie. In particolare, l’attivismo di Donald Trump su questo fronte non sembra avere uguali nella storia recente degli Usa.


Osservando alcuni dati, però, i “timori orientali” dell’inquilino della Casa Bianca potrebbero anche essere giustificati: è ormai dal 2007 che Washington ha ceduto a Pechino lo scettro di principale esportatore al mondo, mentre nel 2011 gli Stati Uniti si sono fatti superare dal Dragone nella produzione manifatturiera. Infine, secondo le stime più accreditate, nel prossimo decennio la Cina supererà lo Zio Sam a livello di prodotto interno lordo. Eppure, c’è un settore dove si pensa che la leadership degli Usa sia destinata a durare per sempre: la tecnologia.


I dati, almeno per ora, danno ragione al patriottismo a stelle e strisce. Le aziende hi-tech cinesi valgono, infatti, circa un terzo dei competitor statunitensi e generano la maggior parte del loro fatturato in madrepatria. Inoltre, Pechino investe il 2% in ricerca e sviluppo contro il 2,8% di Washington.


Ma siamo certi che la situazione attuale non sia destinata a cambiare?

Utilizzando gli strumenti di analisi sviluppati dalla startup Socialbeat, abbiamo elaborato una serie di dati economici delle prime quaranta realtà tecnologiche Fortune 500 di Stati Uniti, Cina, Giappone, Corea del Sud e Taiwan, focalizzandoci sui primi due Paesi. Come secondo passo, abbiamo raggruppato per affinità di mercato alcune aziende e le abbiamo confrontate testa a testa, incrociando la copertura mediatica sulle principali testate giornalistiche occidentali (riferita al numero medio di articoli pubblicati) e l’interesse social generato (numero di “beats”, indice che è la somma di “like”, commenti e condivisioni ottenuti sui principali social network).

Nonostante nel 2017 le società americane abbiano pesato in termini di fatturato quasi quattro volte rispetto alle competitor cinesi, queste ultime hanno registrato una crescita più che tripla nel quinquennio 2013-2017 (Cagr 24%, contro 7%). Ancora: analizzando la marginalità (Ebit- da %) dell’ultimo anno, si scopre come le vincitrici siano le organizzazioni a stelle e strisce (22% contro il 15%), ma nel pe- riodo 2013-2017 le cinesi hanno aumentato sensibilmente la loro marginalità media (dal 2 al 3%). Quella statunitense è risultata addirittura in calo. “I motivi sono sostanzialmente due”, spiegano gli analisti di Socialbeat. “Agli occhi dei consumatori i prodotti cinesi stanno acquisendo sempre maggior valore, mentre nel tempo le aziende del Paese del Dragone sono riuscite a raggiungere una maggiore ottimizzazione su scala”.

Dal punto di vista della copertura mediatica in Occidente, invece, i giganti della Silicon Valley non conoscono crisi, con un evidente (e ovvio) squilibrio rispetto alle controparti asiatiche. Ma non si può dire lo stesso dell’interesse social generato da queste notizie.


Più articoli, meno “like”

Prendiamo ad esempio Amazon e Alibaba, i due pilastri dell’e-commerce mondiale. Fatto 100 la copertura mediatica della compagnia fondata da Jeff Bezos, si nota come da gennaio a maggio 2018 il numero medio di articoli pubblicati sul player cinese sia 27 volte inferiore. Invece, le interazioni degli utenti sui principali social network sono soltanto sei volte di meno. Discorso analogo per Facebook (dal conteggio è stato escluso il caso Cambridge Analytica) e Tencent: la copertura mediatica della creatura di Mark Zuckerberg è 48 volte superiore rispetto al competitor asiatico, ma a livello di viralità il gap si riduce del 275%. Inoltre, l’analisi del sentiment degli articoli rivela un altro elemento importante: nell’89% delle notizie pubblicate sulle organizzazioni cinesi, il tono è positivo, contro il 39% di quelle americane. Le parole più frequenti nel primo caso sono “crescita”, “espansione”, “acquisizione” e così via. Tutte conferme dell’attrattività che i brand cinesi stanno già oggi esercitando in Occidente. La domanda da porsi, quindi, è: considerando che al momento queste realtà sono perlopiù confinate in madrepatria (fanno eccezione i marchi dell’elettronica di consumo, come Huawei e Lenovo) e che non hanno ancora iniziato a investire in modo massiccio in occidente, che cosa succederà quando Pechino deciderà di aprire le dighe?

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